Vita e poesia del Foscolo nel periodo fiorentino 1812-13 (1954)

W. Binni, Vita e poesia del Foscolo nel periodo fiorentino 1812-13, «La Rassegna della letteratura italiana», a. 58°, serie VII, n. 2, Firenze, aprile-giugno 1954, pp. 185-199; poi raccolto in Id., Carducci e altri saggi, Torino, Einaudi, 1960, pp. 141-162 (edizioni successive: 1967, 1972, 1975, 1980, 1990), e in Id., Ugo Foscolo. Storia e poesia, Torino, Einaudi, 1982, pp. 180-202 (edizioni successive: 1990, 1995). Il saggio coincide in parte con il testo della conferenza intitolata Foscolo a Firenze, pronunciata nell’ambito di un ciclo di lezioni dedicate all’Ottocento Fiorentino (Firenze, 8 aprile 1954) e stampata in L’Otto-Novecento, a cura della Libera Cattedra di Storia della Civiltà Fiorentina, Firenze, Sansoni, 1957, pp. 39-66.

Vita e poesia del Foscolo nel periodo fiorentino 1812-13

Dopo la proibizione dell’Ajace e i rinnovati attacchi dei letterati cortigiani[1], tanto piú insopportabile era divenuta per il Foscolo la vita in Milano (la «città di suicidio», la «città di letame», «Paneropoli» con i suoi cittadini semplici «stomachi») e, nel suo desiderio crescente di un «esilio liberatore», Firenze – al cui vivo ricordo era legato il ricordo stesso degli anni giovanili, l’incanto di una terra che egli aveva chiamato «sacro paese» nell’Ortis e «beata» nei Sepolcri, per la intensa e pura vitalità del paesaggio e della tradizione storica e poetica[2] – si presentava naturalmente, dal cuore, come ideale meta di un simile «esilio», come il luogo piú favorevole ad un suo ritorno alla lirica e agli studi piú impegnativi: lontano dalle risse letterarie che eccitavano i suoi umori piú acri, lontano dalle passioni tormentose che lo ardevano senza illuminarlo e che lo avrebbero illuminato se avesse potuto riviverle poeticamente, armonizzarle in una commozione piú calma e distaccata, risolte in «calore di fiamma lontana». Che è poi il piú vero segreto della poesia delle Grazie e della loro effettiva possibilità di realizzazione nel nuovo periodo fiorentino.

Sollecitato dai sospetti del governo vicereale per un uomo che fu sempre considerato una «testa calda», un irrequieto inadatto a servire (e piú tardi lo Strassoldo dirà di lui con altissimo elogio in bocca a un poliziotto: «rimarrà un individuo pericoloso sotto ogni regime»![3]), incalzato da funerei presagi e dal senso doloroso di una precoce vecchiaia, il Foscolo si decise cosí nell’agosto del 1812 a lasciare Milano, dove non può piú vedersi «inter tantam scabiem, et contagia lucri»[4], dove la «tristezza, la noia, il freddo, l’amor del letto, e l’odio d’ogni società, tutti corrieri che precedono la veneranda Parca», lo persuadono «che la vera, forte, ardita vita è ormai trascorsa per lui»[5] e si dirige verso Firenze «dove spera di rivivere» poiché «le memorie degli anni suoi che fuggivano, e l’amor delle lettere e della lingua gli fecero desiderare assai volte la bella Toscana»[6], e dove sfuggirà il contatto dei letterati e dei conversatori «oziosi e ciarlieri». Ché su questo punto egli non si fa inutili illusioni («se Firenze è bellissima, i fiorentini non son già l’anime piú schiette del mondo»[7]). Ma del resto solo raramente – e piú nella ripresa dell’autunno 1813 – avrà occasione di reazioni piú energiche contro «quest’Universo dell’Arno composto di venti sguaiate, e di cinquanta calabroni»[8], disposto come sarà all’indulgenza e ad una fondamentale simpatia per i fiorentini, «tutti gente del secolo d’oro forse perché come Didimo non siamo né avidi né ambiziosi»[9], e salvaguardato da un piú cauto impiego dei propri affetti che gli permette di sorridere senza sdegno sui pettegolezzi di casa Santini, sul brusio di sussurri e piccole maldicenze, non assente neppure nel caro salotto della d’Albany.

Giunto a Firenze il 17 agosto e sceso all’Albergo delle Quattro Nazioni sul Lungarno, vicino alla casa d’Alfieri, davanti a Ponte Santa Trinità, il Foscolo provò subito come un nuovo impulso fiducioso e un senso profondo di sollievo, di evasione da un mondo di cure oppressive e turbatrici, e tutte le lettere di quegli ultimi giorni di estate – dirette alla saggia Temira o alla corteggiatissima Martinetti su linee piú agevoli di amore-amicizia o di amore-galanteria (interrotta provvisoriamente la linea bruciante dell’amore-passione con una tumultuosa lettera a Lucietta Battaglia) – portano affermazioni decise sulla sua mutata disposizione di umore, sul suo gradito e pieno abbandono alle impressioni distensive e rasserenanti della nuova vita fiorentina[10].

E se non si potrà parlare di un vero e proprio risorgimento in senso leopardiano, e se questo nuovo periodo foscoliano si svolgerà sotto il segno di una «vita calma se non felice» e, in certi momenti, di «una pace malinconica» piú che di un impetuoso entusiasmo, non si può fare a meno di sottolineare la nuova fiducia con cui il poeta annunciava il 22 agosto alla Teotochi: «sto gaio assai d’umore e svegliato d’ingegno e scrivo piú in un’ora qui che in tutto un giorno a Milano»[11], specie se si ricordi che, nella stessa lettera, decisamente egli afferma che nell’inverno andrà a Roma per stamparvi «un Carme intitolato le Grazie e diretto a Canova».

Una sicura coscienza della rinnovata forza creativa, provata già felicemente in quei primi giorni fiorentini, si assicurava ad una nuova disposizione dell’animo che, nel riposo e in una ricchezza di stimoli piú eccitanti che agitanti (per adoperar sue parole), trasformava una tensione turbata e pratica in una nuova tensione poetica, entro una calma alacre, in una consonanza gradevole con un paesaggio a cui già, per una consuetudine della memoria, attribuiva un potere consolatore, con una città in cui la fantasia recuperava facilmente vivi elementi dei propri miti: dalle tombe di Santa Croce, dove appena giunto il Foscolo si reca a salutare «quei suoi santi amici e maestri», al Lungarno dove egli veniva a vivere (vi rimase fino al 15 ottobre per passare poi nella casa piú quieta dei Prezziner in Borgo Ognissanti, finché in aprile salí alla villetta di Bellosguardo[12]) e dove ben presto poté realizzare il suo vecchio sogno di respirare le «aure alfieriane» nel salotto ospitale della d’Albany.

Non si pensi che Firenze offrisse al poeta dei motivi particolari, legati alle condizioni storiche, culturali, socievoli di quegli anni (ben diversi del resto da quelli successivi dell’Antologia e del circolo risorgimentale fra Vieusseux e Capponi) o a precise suggestioni dei suoi monumenti e della sua arte. Perché, a parte la limitata possibilità della vita culturale e socievole fiorentina in quegli anni – poco propizi anche al movimento e al passaggio dei forestieri italiani e stranieri –, il Foscolo stesso cercava in Firenze cose essenziali, affetti tranquilli e poco impegnativi, contatti misurati per un gradevole calore di socievolezza, senza quel bisogno di sfogo impetuoso nella vita elegante e nella affermazione esterna della propria personalità che caratterizza ben diversamente altri periodi della vita foscoliana.

E come egli si tenne accuratamente lontano dalla vita ufficiale della piccola corte di Elisa e Felice Baciocchi, cosí fu restio ad approfondire e ad ampliare di molto le sue relazioni amichevoli di antica data (Niccolini, Collini) o quelle nuove con il Baldelli, con le famiglie Corsi e Santini, con le famiglie forestiere degli Orozco e dei Cicognara.

Non che la sua vita fiorentina (specie al suo inizio e poi nella breve ripresa dell’ottobre-novembre 1813) fosse di misantropo, e non mancano nelle sue lettere echi di visite, di balli, di pranzi e di teatri. Ma questa vita socievole fu sentita dal poeta nel suo valore di piacevole possibilità di contatti poco profondi e poco impegnativi, limitata volontariamente in un saggio equilibrio fra la solitudine operosa e l’esperienza concreta di una propria disposizione a calme, serene relazioni, esercitate soprattutto nel salotto della d’Albany. Mancano grandi incontri, mancano amicizie fervide (quella stessa con il Niccolini sembra spengersi in una consuetudine senza grande interesse): e quanti tagli bisogna pur fare alle leggende degli studiosi ottocenteschi sugli ipotetici amori fiorentini, da loro moltiplicati – fra sdegni puritani e compressa malizia libertina – ad maiorem gloriam dell’ardente e insaziabile conquistatore[13]. In realtà – sfiorito l’antico amore per la Roncioni, divenuta, con la maturità, frivola e fredda, e a parte una corte, balenante di scarsi guizzi di passione e piú fatta di puntiglioso orgoglio maschile, per la bella Nencini[14], e galanterie fuggevoli per l’anacreontica Rosellini o per la facile Clementina Pagnini – un solo volto femminile si stacca nella vita fiorentina del Foscolo: quello di Quirina Mocenni Magiotti, la Donna gentile. E fu quello un amore di tenera intonazione coniugale, tranquillo e senza ansie, fatto di devozione della donna e di affettuosa confidenza e riconoscenza dell’uomo, ma privo assolutamente degli impeti che son propri delle grandi passioni foscoliane; adatto insomma a confortare una certa inclinazione delle Grazie e dei loro affetti gentili, ma non certo ad ispirare quegli accenti piú intensi di inno alla bellezza e di elegia sulla soave cura dell’immortale amore, che nello stesso carme incompiuto si riferiscono invece alla Bignami e, piú segretamente, alla Battaglia.

E ugualmente scarsi ma essenziali sono gli accenni a precisi motivi della bellezza di Firenze e della sua arte. Il tempio rimane Santa Croce, gli Uffizi sono per lui solo la Venere del Canova contemplata per piú giorni al suo arrivo e cosí fortemente efficace nell’avvio delle Grazie («la bella Dea che in riva d’Arno / sacrasti alle tranquille arti custode»). E, se non mancano nelle Grazie precisi ma scarsi riflessi di luoghi e monumenti fiorentini (il leggiadro ostello raffaellesco della Nencini Pandolfini, i giardini dell’ombrifero Pitti, i lucidi teatri in cui il pellegrino

... errare un desio dolce d’amore

mira ne’ volti femminili, e l’aura

pregna di fiori gli confonde il cuore),

son soprattutto il senso squisito della eleganza fiorentina, l’essenziale fusione di civiltà e di naturale bellezza della città, lo stimolo vitale e serenatore del suo paesaggio (viva introduzione ai paesaggi aerei delle Grazie, al paesaggio mitico-greco, all’Iperuranio eternamente primaverile) che animano il poema incompiuto e si condensano liricamente nella contemplazione da Bellosguardo di un paese naturale e mitico in cui senza sforzo possono danzare ninfe, suonare silvani, di una terra poetica e vera vagheggiata nel rito delle sacerdotesse o nella rievocazione della meditazione celeste di Galileo:

Con elle

qui dov’io canto Galileo sedeva

a spiar l’astro

della loro regina; e il disviava

col notturno rumor l’acqua remota,

che sotto a’ pioppi delle rive d’Arno

furtiva e argentea gli volava al guardo.

Qui a lui l’alba la luna e il sol mostrava,

gareggiando di tinte, or le severe

nubi su la cerulea alpe sedenti,

or il piano che fugge alle tirrene

Nereidi, immensa di città e di selve

scena e di templi e d’arator beati,

or cento colli, onde Appennin corona

d’ulivi e d’antri e di marmoree ville

l’elegante città, dove con Flora

le Grazie han serti e amabile idioma.

Firenze offrí cosí soprattutto il suo paesaggio, il suo idioma, la sua eleganza naturalmente classica, un’esperienza di socievolezza piú che di grandi affetti e di frementi passioni, e quel luminoso salotto del Lungarno[15], che accolse il Foscolo, benevolo e confidente fra il ritratto e la biblioteca dell’Alfieri, i suoi manoscritti tormentati e rivelatori di un’ansia di perfezione cosí stimolante per il creatore delle Grazie, nelle serene conversazioni con la d’Albany e con il Fabre: vivo luogo di rapporti gentili, di esercizio consueto e familiare di affetti indulgenti e pacati, che egli piú tardi rievocherà con lucida nostalgia e con una interpretazione essenziale all’animo del soggiorno fiorentino, nella lettera al Fabre del 24 gennaio 1814[16]:

E il mio desiderio di tornarmi a Firenze deriva assaissimo, Signor mio, dalla memoria affettuosa, e religiosissima ch’io serbo perpetuamente della Signora Contessa; deriva dalla stima ch’io a poco a poco ho nutrita, ed oggimai ha preso ferma radice dentro di me – dalla stima a cui Ella, mio Signore, mi ha persuaso. Io trovava seduto in quella stanza tutte le sere un dolce e perpetuo eccitamento allo studio; e una soave indulgenza, e una dilicata cordialità, e la libertà di parole, e la fiducia d’affetti ch’esercitavano il mio cuore e la mia mente senz’agitarla e moderavano insensibilmente l’ardore delle mie passioni, ardore che spesso, e piú in questi ultimi mesi invece di illuminare il mio spirito, e scaldare la mia immaginazione, li aveva quasi arsi e distrutti.

In quel salotto il Foscolo viveva concretamente un senso della vita piú adeguato alla sua aspirazione all’armonia, una superiore saggezza intima e sobria che lo stesso Alfieri, nei ricordi della d’Albany, gli suggeriva fra «ira e malinconia», come le frasi piú pacate e poetiche dei suoi ultimi anni («lo studio ed i libri e le dolcezze domestiche, aspettando la morte, sono veramente le sole che meritino d’esser considerate dall’uomo, quando ha sfogata la gioventú»[17]). E lí (non in contatti mancati con l’ambiente neoclassico fiorentino dei Benvenuti e dei Morghen), nelle conversazioni con il Fabre, «l’artefice elegante», «l’elegantissimo scolaro del Pussino», l’aspirazione neoclassica alla perfezione e alla purezza delle immagini trovava una prosecuzione piú intensa e propizia delle precedenti conversazioni con la Martinetti, l’amica del Canova[18], o con la Teotochi, illustratrice preziosa e sensibile delle opere canoviane, e le giovanili letture dei testi neoclassici di Mengs e di Winckelmann riaffioravano nella memoria e prendevano nuovo valore. E le loro indicazioni di unità-varietà, di «edle Einfalt und stille Grösse», di sollecitante collaborazione fra poesia e arti figurative, della grazia come disposizione celeste che agisce (e sono parole di Winckelmann) «nella semplicità e nella quiete dell’animo, e il troppo fuoco e le passioni esagerate l’offuscano»[19], e la tensione alla «bellezza ideale», nel grande poeta (ferma restando la sua diffidenza e il suo sarcasmo per i pittori-dottori neoclassici e per la precettistica accademica) divenivano – piú che invito ad un frigido sogno archeologico e ad un edonismo platonizzante (pur se tracce di quel pericolo non sono certo assenti nei momenti meno ispirati delle Grazie) –, stimolo propizio al suo neoclassicismo romantico, alla sua rinnovata poetica del mirabile e del passionato, alla sua originale ricerca di «calore di fiamma lontana». Mentre, in quel salotto, la suggestione di una Musa canoviana (né importa constatare come nei rapporti ideali con lo scultore, che egli vedeva lontano a Roma intento a «vestir d’eterna giovinezza i marmi», vi fosse un facile scambio fra aspirazione e realtà[20]) agevolava il poeta in quella trasfigurazione soave, in quel sogno di armonia gentile in cui le statue canoviane e le belle ospiti della contessa confondevano i loro caratteri di perfezione e di vita, e le donne, le fanciulle divenivano grazie viventi in un margine piú esterno di vagheggiata eleganza e, piú in profondo, in quel senso della femminilità con i suoi doni inestimabili della verecondia, della compassione, della soave voluttà, che in quel periodo superavano il pregio dell’amicizia virile e quello tempestoso della passione[21].

Quell’atmosfera spirituale e poetica, creatasi nella fruizione di quegli stimoli sereni e coerenti, offerti a lui da Firenze fino al luglio 1813, si incontrava in maniera piú particolare (con efficacia e con rischio) con il senso di sollievo e di evasione dal mondo aspro delle cure e dei crucci, in quel primo periodo fra estate e autunno incipiente, in cui il Foscolo precisò il primo disegno delle Grazie accentuando la facile trasfigurazione Firenze-Grecia e rivolgendosi inizialmente a quelle parti che di quell’inclinazione soave e consolatrice e di quell’aspirazione al poema delle belle arti e al sogno di una civiltà ingentilita e salvata in un mito poetico di perfezione elegante e luminosa potevano apparirgli piú diretta espressione. La sua fantasia si popolava di miti consolatori, di figure femminili splendenti e vaghe, di paesaggi aerei e sereni, animati da quella vitalità piena e ingentilita che vibra nel moto agile delle Nereidi oceanine, nella figura radiosa della «Gioia alata degli Dei foriera», nel molle abbraccio affettuoso di Venere e delle Grazie emerse dal mare.

Era la disposizione poetica di giorni in cui il Foscolo poteva scrivere all’Araldi[22] – mentre nelle lettere alla Martinetti o al Trechi parla di Muse come donne e donne come Grazie e la gentile Matildina Orozco ha, come la giovinezza, i passi ornati di fiori[23] –:

Ed intanto mi sto con Erato, con Melpomene, con Talia, e con tutti gli amabili Genii delle belle arti, e nella piú amabile città dell’Italia:

Né del mondo mi cal, né di fortuna;

e vorrei sempre potere cosí,

Neptunum procul e terra spectare furentem;

ma non già

Oblitusque meorum, obliviscendus et illis.

E, se nelle ultime parole si avverte come la coscienza di un necessario correttivo a quella disposizione troppo beata, questa citazione chiarisce bene come in quel primo avvio delle Grazie e nella loro contrapposizione ad un periodo tumultuoso e turbato, nella letizia per la scoperta dell’armonia salvatrice, vi fosse pure un certo compiacimento rischioso del proprio stato e della propria serenità, un’accentuazione eccessiva dell’amabile, del vago, dell’elegante, del grazioso, del tono neoclassico accordato a quelle componenti dell’evasione, del rifugio, della contemplazione del mare furente da una riva sicura, con un certo sorridente distacco, che non corrispondono all’animo piú intero e profondo del Foscolo e al pieno significato del carme delle Grazie. In cui la stessa armonia sarà sentita piú come intima conquista che non come facile ed euforico possesso, e che anche nei suoi momenti piú sereni implica una vibrazione malinconica, presuppone una tensione romantica, un dinamico sviluppo da una base di elegia e di consapevolezza della sorte dei mortali, dei loro istinti ferini, del carattere drammatico della loro storia e del loro presente.

Quella disposizione indicata dalla lettera all’Araldi aveva qualcosa di limitato e ben presto il Foscolo stesso dové accorgersene o forse fu il suo animo che a quel rasserenamento non ancora saldamente approfondito, e pur nel desiderio di meglio affermarlo, rispondeva istintivamente con la voce del dramma troppo facilmente superato, con l’esigenza di provare la resistenza di quelle nuove voci e di quei nuovi miti nell’urto di una tensione violenta e troppo, momentaneamente, compressa. Cosí come quei primi felici accordi della armoniosa melodia pittrice chiedevano una maturazione ulteriore, un esercizio stilistico piú minuto e paziente, adeguato ad una maggiore coscienza degli ostacoli da superare e delle passioni da dominare: e furono le prove della Ricciarda e della versione sterniana didimea, che occuparono l’autunno e l’inverno, interrotto il lavoro piú intenso delle Grazie verso la fine di settembre[24].

Gli elementi drammatici, le ossessive immagini della morte, l’ansia di gesti risolutivi erompono nella Ricciarda, chiedendo un’espressione che sarà anche depurazione dell’anima per una poesia meno insidiata da questi fermenti piú momentaneamente ignorati, con una singolare forza convulsa, con un eccesso di tinte cupe, notturne (il finale si svolge nei sotterranei del castello di una fantastica Salerno medievale, fra le tombe dei principi), con una furente tensione di sentimenti di odio, di lacerazioni familiari, di roventi sdegni politici e patriottici a cui furono di stimolo le rinnovate letture alfieriane, l’ammirazione nuova per le tragedie di Schiller[25] (ma Schiller poteva anche operare piú in profondo, per le Grazie, nella direzione dell’Inno alla gioia) e la ricerca assai incerta di un romanticismo indigeno, di una tragedia nazionale italiana.

E d’altra parte in quell’eccesso di orrore, che scarica una tensione che non aveva ancora trovato la via piú sicura nella integrale espressione delle Grazie, una voce dolente e pura, quella di Ricciarda, sorella ideale di Cassandra e Tecmessa, la voce del tema alto dell’amore casto, del pudore, della femminile pietà[26], sembra ben anticipare, pur con un’abbondanza di pianto, lo sviluppo successivo delle Grazie, i toni piú profondi dell’elegia che arricchisce di venature piú segrete ed umane le immagini splendenti della giovinezza che «discende un clivo onde nessun risale», del guerriero che sospira sul suo prigioniero, della sacerdotessa della danza che plora sulle rive del lago notturno, della vice-regina che prega per il ritorno del marito combattente in difesa della patria.

Accanto alla Ricciarda, e diversa testimonianza della complessità dell’anima e del lavoro del Foscolo in questo eccezionale periodo di vita poetica e di supremo impegno stilistico, si inseriscono in mezzo allo sviluppo delle Grazie (la meta alta di quell’anno) la versione del Viaggio sentimentale di Yorick dello Sterne e la Notizia intorno a Didimo Chierico, in cui la ricerca della parola, tesa a esprimere i moti piú segreti, i toni e i semitoni di una ricchissima vita interiore, e la ricerca di uno strumento linguistico appropriato, si fondono con quella di un autoritratto sempre piú sottile e complesso, nel dominio di passioni non ripudiate e recuperate nel loro perfetto «calore di fiamma lontana» che è presente non solo nella Notizia, ma nelle stesse pagine della sua traduzione-creazione.

In quella versione, ripresa inizialmente con un certo fastidio della servitú del tradurre, quando si proponeva di eliminare ogni traccia di inglesismo dalle sue precedenti prove del lontano periodo francese, e rielaborata di nuovo con un piú preciso scopo artistico, il Foscolo realizzava concretamente anzitutto il suo straordinario interesse linguistico, l’amore per la lingua italiana, l’idioma puro che sarà raccomandato alle Grazie come la loro vera lingua. E quest’amore si fece piú acuto ed attivo proprio in quel periodo fiorentino, quando il Foscolo si mostra cosí attento alla freschezza del parlato robusto e gentile (la gentilezza trovata fino in Mercato vecchio, il piacere della conversazione con il domestico fiorentino a Bellosguardo, la constatata bellezza del linguaggio del contado fatta da Didimo), attentissimo alla ricchezza della lingua trecentesca e cinquecentesca (ed è l’epoca di accanite letture di autori toscani e delle lunghe liste di modi non segnalati dalla Crusca[27]), teso a sciacquare in Arno la propria lingua e a farla «purissima e propria», elegante e personale, regolare ma non pedantesca («bel metallo che bisogna ripulire della ruggine dell’antichità e depurare dalla falsa lega della moda»[28]). In un incontro di tradizione e di vitalità che ancora una volta egli trovava nella viva offerta della città amata, mentre rifiutava, con il suo potente senso dei diritti del genio creativo, le «dure catene grammaticali», le tendenze archeologiche del cruscantismo piú stanco o del purismo dei linguaioli settentrionali, nella celebre lettera allo Schulthesius del 27 agosto 1812 o in alcune parti di quella Ipercalisse che, ripresa a Firenze, porta in mezzo al lavoro della versione sterniana gli echi piú aspri della dura satira milanese[29].

Questo amore per la lingua ben si compose, nella stesura definitiva della versione – specie in relazione alla Notizia e all’autoritratto elusivo di Didimo –, con un animus artistico che in quella lingua trovava la sua sottile e segreta espressione e che, presente ed originale nel Foscolo sin da certe pagine dell’Ortis, del Sesto tomo dell’io, del carteggio Arese[30], solo ora – in questo essenziale periodo di grande maturità, di felice calma creativa, di esplorazione piú intera della propria ricca vita interiore – si spiega in pagine squisite, in sottili recuperi di componenti di ironia, di saggezza elusiva e patetica nel margine sollecitante e limitativo del testo settecentesco di Sterne.

Esercizio puntuale di lingua e di stile, di sensibilità, di intelligenza, che ben si inserisce nello sviluppo delle Grazie (e riprende quello già prima iniziato delle versioni omeriche[31]), assicura meglio la loro ricerca di un linguaggio «fluido e pervio», resistente e trasparente e attua, in una zona meno lirica e piú minutamente controllata, quella volontà di dominio delle passioni piú urgenti senza che esse siano mortificate e soppresse. E quante espressioni e quanti atteggiamenti didimeo-sterniani ci riconducono alle Grazie, in questa applicazione piú attenta ed ironico-affettuosa dei temi alti della compassione, della verecondia, della gentilezza: l’insistente uso dell’aggettivo tematico «soave», il valore del verbo «disacerbarsi», la descrizione delle donne che nella fantasia abderita «sedevano vereconde ad ascoltar la canzone» d’amore e il dilagare di questa «per ogni labbro, quasi note di musica naturale modulate inavvedutamente per soave forza di melodia...», o l’elogio delle cortesie: «Siate pur benedette, o lievissime cortesie! voi spianate il sentiero alla vita: voi gareggiando con la Bellezza e le Grazie che fanno alla prima occhiata germinare in petto l’amore, voi disserrate ospitalmente la porta al timido forestiero»[32]. Richiami evidenti, entro il testo sterniano-foscoliano, alla musica arcana della vergine romita o alla scena dell’ospite nel velo delle Grazie. Come nella Notizia intorno a Didimo Chierico è ben chiaro il valore per le Grazie di tante osservazioni di Didimo e dell’essenziale ricerca del «calore di fiamma lontana» attuata già fra sospiro e sorriso, fra sorriso e lacrima

(e il sorriso e il sospiro errin sul labbro

delle Grazie, e a chi son fauste e presenti

dolce in core ei s’allegri, e dolce gema)

in quella trama artistica aliena da ogni enfasi e da ogni durezza, limpida e pur vibrante ad ogni minimo impulso del cuore e della fantasia.

Tuttavia in quell’opera pur si avverte che l’animo poetico foscoliano chiedeva ben altra espressione lirica e centrale, e come certa affettuosa malizia di humour, un certo epicureismo sentimentale, un che d’«ilare e pago» (nella loro base piú settecentesca) potevano risolversi solo in aspetti piú dubbi del poema come, ad esempio, nel quadro della Napea e del Fauno nell’episodio dei Silvani e del Boccaccio, cosí lo stesso Didimo non coincide con il cantore delle Grazie. E quando quegli avverte «non so qual dissonanza nell’armonia delle cose del mondo» è pur diverso dal «sacro vate» delle Grazie che dalla consapevolezza delle dissonanze e discordanze della vita aspira ad un’armonia piú salda e duratura e dà insieme una ben diversa fermezza nitida e perfetta e una risonanza melanconico-serena ai miti e alle figure della giovinezza o della sacerdotessa della danza e assicura, con ben altra presenza di sentimenti universali, una vibrazione intima, l’eco di un’elegia intensa e purissima al suo mondo poetico perfetto, continuamente chiaroscurato dalla presenza delle passioni, dall’ombra della sventura e della morte, della «fraterna strage» e del «natio delirar di battaglie» nel cuore stesso che si illumina di armonia: consapevolezza e presenza, partecipazione profonda alla sorte e alla storia degli uomini che cosí radicalmente allontanano le Grazie, nel loro tono piú alto, dal semplice sogno di un esteta, dal rifugio di un epicureo in miti beati e raggiunti in una privata evasione dalla realtà.

E nello stesso inverno ’12-13, in cui sostanzialmente concludeva il lavoro sterniano e la Ricciarda[33], il Foscolo, mentre rafforzava, dopo lo sfogo della tragedia e l’esercizio e il ritratto didimeo, la propria aspirazione ad un’armonia piú sicura e luminosa, poteva aprire di nuovo e piú chiaramente il suo animo all’eco delle passioni lontane e vive, alle notizie da Milano delle sventure, della scomparsa di giovani amici e di vecchi compagni d’arme nella campagna di Russia, dei pericoli dell’Italia minacciata dalla guerra[34]. E quegli echi di una realtà dolorosa e a cui non poteva essere indifferente e che gli ricordavano i suoi amori, le sue amicizie, i suoi impegni e i suoi ideali politici, i suoi rapporti di uomo vivo nella storia del proprio tempo, vengono a rifluire in lui sollecitanti, ma non turbatori, proprio quando egli riprende con nuova forza l’elaborazione delle Grazie in quell’inizio di primavera del ’13 in cui era salito a vivere a Bellosguardo in una pace serena ed armonica sottraendo il suo lavoro ad ogni pur minimo disturbo, regolando a suo piacere le essenziali occasioni socievoli, i rari affetti (la Quirina, il salotto del Lungarno) che lo riscaldano in un presente privo di ansie e di crucci immediati.

Condizioni biografiche ed esigenze intime della poesia si aiutano in un momento di suprema energia creativa, passioni e serenità si equilibrano in un rapporto singolarmente propizio. In quell’aprile indimenticabile per lui («né il vago rito / obblieremo di Firenze ai poggi / quando ritorni April», dirà nel finale delle Grazie) e poi sino al luglio, in quella zona di serenità e di vitalità pura e profonda, in cui il respiro della poesia si confonde con il respiro della vita del poeta e del paesaggio («nella convalle fra gli aerei poggi», fra le «quete ombre di mille / giovinetti cipressi»), in quella disposizione dell’armonia che vive in ogni ora della sua giornata, in quel cerchio purificatore sensibile e resistente come il velo stesso delle Grazie, tornano da lontano e lo tendono senza spezzarlo le passioni e gli echi della dolorosa realtà. E le voci del «passionato» contemporaneo penetrano nella perfezione del «mirabile» mitico e tutto l’animo foscoliano esprime le sue note piú profonde e universali. Piú armonia e piú tensione, piú purezza e piú complessità, piú altezza di distacco poetico e piú impegno nella interpretazione della vita umana. Ché in quell’accordo supremo di tensione e di serenità, riaffiora, privo di ogni polemica eloquente, di ogni enfasi violenta, tutto il dramma degli uomini e della storia, e una potente elegia dolente e luminosa, senza la minima traccia di languore, forma un essenziale chiaroscuro cosí foscoliano con l’aspirazione all’armonia, con il sentimento di un’umanità superiore libera e fraterna, con l’Iperuranio, in cui sono «senza brina / i fiori e verdi i prati, ed aureo il giorno / sempre, e stellate e limpide le notti», ma che pure idealmente è un’esperienza dell’animo che poi con rinnovata forza torna ad immergersi nella vita minacciata dalle impure passioni, dagli atavici istinti ferini e fratricidi[35].

Al di là dell’Ajace, in cui alla preghiera di Tecmessa di far crescere il figlio non «disumano», libero di eredità di odio e di colpe, l’eroe della tragedia rispondeva ancora con la soluzione suicida dell’Ortis («o uomini infelici / nati ad amarvi e a trucidarvi, addio!»), il Foscolo delle Grazie raggiunge un punto piú alto e conclusivo per il suo animo, e cosí importante nella storia di quel tragico momento della civiltà (fra crollo napoleonico, ritorno della reazione e religione incipiente della libertà e della patria: egli poeta ora di tutte le patrie offese ed invase e non solo dell’Italia «afflitta di regali ire straniere»). Non con la morte sdegnosa ma con l’esercizio intimo di una vita piú pura e superiore egli risponde all’orrore della «fraterna strage» e lo stesso compianto dei «giovinetti per la patria estinti», dei «principi» quando sventura di alloro li «corona», dei condottieri in lotta per la difesa e non per l’offesa (in contrasto con la ferma, alta condanna per «l’avido re» che «ad innocenti popoli appresta ceppi e lutto ai suoi» o dei violenti che «alla divina libertà dànno impuri ostie di sangue»[36]), è come l’alba malinconica e lieta di un’umanità ingentilita dalle Grazie, viva di affetti intensi e disacerbati come quelli dipinti nel velo tessuto nell’Iperuranio.

Ugualmente l’elegia degli uomini «dopo brevi dí sacri alla morte», mentre è componente essenziale di un inno all’armonia, tanto piú alta perché consapevole del suo difficile possesso e della sua delicata fragilità, è a sua volta superiormente rasserenata non da orgogliose o ultraterrene speranze, ma proprio dall’esercizio attivo dei sentimenti della compassione, della ospitalità, del casto amore, della fruizione della poesia, delle arti, dell’armonia che vive nell’universo come la stessa coscienza dolorosa dei suoi possibili limiti e per la quale gli uomini son resi «men tremanti al grido che li promette a morte»; e «dalla fonte del duol sorge il conforto», dal seno stesso del dolore nasce la gioia. Una gioia profonda e malinconica, fiduciosa e consapevole, che il Foscolo nutrí nel suo animo in quei mesi supremi della sua vita poetica ed espresse in altissimi miti perfetti e vibranti, luminosi ed intensi, nitidi e mobili e segreti come l’armonia e la musica, alle cui condizioni l’ispirazione delle Grazie meglio corrisponde superando, nei suoi momenti piú veri, ogni possibile paragone con un colorismo sensuale, con una fermezza di bassorilievo, e raggiungendo il segno di quella arcana armoniosa melodia pittrice, viva davvero nella musica della vergine romita o nel misterioso alitare della fiamma di Vesta.

In quei mesi di eccezionale fervore creativo e di equilibrio fra tensione e serenità, mentre l’inno iniziale si articolava in un carme in tre inni e il disegno se ne allargava continuamente, il Foscolo operava un approfondimento del suo iniziale fantasma poetico. E se sarebbe assurdo precisare in termini assoluti un vero e proprio contrasto fra le Grazie iniziate nel 1812 e il lavoro del 1813 che sulla via delle prime si svolge e ne accetta le prime stesure e ne utilizza schemi e intenzioni, a me sembra fondamentale quella constatazione, che implica una correzione intima – anche se non sempre felicemente attuata e complicata rischiosamente dalla volontà di una completezza particolareggiata degli elementi piú esternamente didascalici del carme neoclassico – dei pericoli insiti in una inclinazione piú facile ed elegante, in un significato piú immediato del rifugio e dell’evasione dal «mare furente» di cui parlava nella lettera citata all’Araldi, in un vagheggiamento piú compiaciuto del vago, dell’amabile, del grazioso, di quell’armonia che nel successivo e piú intenso lavoro della primavera venne meglio assicurata nei suoi valori arcani, nella sua luce profonda[37]. Approfondimento e ricerca di toni sempre piú musicali ed intimi che (pur nella presenza di episodi e frammenti meno intensi e piú letterari e didascalici, specie nel II inno) io penso si potranno sostanzialmente precisare nello svolgimento dei cicli elaborativi del carme, fissati, fra l’inizio della primavera e il luglio, dall’introduzione che Francesco Pagliai ha premesso al suo anticipo del testo critico delle Grazie che, ad ogni modo, confermerà risolutamente la quasi totale fiorentinità delle Grazie e l’eccezionale fervore creativo di quella primavera di Bellosguardo[38].

Si potrà anche dire che all’arricchimento e approfondimento corrispose una maggiore difficoltà di concludere il poema, che le nuove occasioni poetiche, mentre sollecitavano il poeta ad ampliare il suo carme e a dargli un valore tanto piú universale e superiore a quello dell’inno del rito delle tre sacerdotesse delle arti e dell’omaggio a Canova, lo inducevano ad un lavoro tormentoso di accomodamenti e di spostamenti per adattare i nuovi nuclei lirici e le nuove elaborazioni di quelli precedenti ad uno schema sempre piú complesso. Ma è chiaro comunque che la poesia foscoliana in quel periodo raggiunse le sue punte piú intense e piú profonde proprio perché i motivi piú segreti, le voci piú vere della sua anima trovarono in quei mesi un felice accordo – e al culmine di un lavoro artistico che unifica tutto il periodo fiorentino – fra tensione e serenità, agevolato dalla singolare condizione del Foscolo, nella calma di un presente confortato di suggestioni e di affetti tranquilli e nella tensione eccitante, ma non agitante di passioni e di echi della realtà contemporanea mediati e illimpiditi in quel cerchio perfetto e catartico.

Purtroppo quell’equilibrio fra tensione e serenità non si mantenne lungamente. A un certo punto le passioni, che avevano illuminato senza bruciarle quell’anima e quella poesia, ebbero il sopravvento, l’impetuoso amore per Lucietta Battaglia (celato, con gusto tutto foscoliano, sotto l’amore schermo per la Bignami), il creduto richiamo della donna amata, l’ansia per la situazione politica, sempre piú incerta e drammatica[39], superarono il limite del cerchio purificatore che le aveva accolte piú eccitanti che agitanti, strapparono il Foscolo da Firenze, lo ricondussero, agli ultimi di luglio, a Milano. E là inutilmente egli volle proseguire il suo lavoro poetico, come invano cercò poi di recuperare il suo slancio creativo sperando nella taumaturgica virtú di Firenze e di Bellosguardo, dove ritornava alla fine d’ottobre, e dove solo dopo grande sforzo poteva lavorare all’episodio dei Silvani e tentare nuove sistemazioni del poema che non sarebbe stato ormai piú completato.

In quell’autunno che egli chiamò «fatale», la passione per Lucietta si rivelò sempre piú assurda e tormentosa e sempre piú difficile per lui divenne l’arduo intimo lavoro di dominio delle proprie passioni e delle proprie ansie, mentre Marte bramasangue, il richiamo insistente dell’onore che lo voleva a Milano minacciata dalla guerra, lo sguardo angosciato ad un avvenire sempre piú oscuro, lo turbano, lo persuadono che inevitabile è la partenza, il definitivo distacco da Firenze (che avvenne alla metà di novembre).

Ma quel distacco, necessario nella irrequietezza indomabile e nel sentimento della sua vocazione ad impegni generosi e tormentosi, era accompagnato dalla coscienza di ciò che egli era costretto a lasciare e ben presto, rievocando a se stesso piú la stagione propizia culminata nella primavera di Bellosguardo che non l’ultimo periodo autunnale, a cui pur non era mancata la luce frammentaria della poesia, il Foscolo precisava nelle lettere, soprattutto alla d’Albany, quel Leitmotiv accorato e insistente che erompe fra le parole grandi delle sue amare speranze, della sua trepidazione per le tragiche vicende personali e italiane: «Ma per quanto io sia qui col corpo, l’anima mia torna sempre a Firenze. Ci tornerò se non altro per esservi seppellito, e per essere compianto da presso da chi accolse l’ultimo spirito dell’Alfieri»[40].

Ma io verrò, e a questo oggi rivolgo tutti i pensieri, verrò a morire a Firenze; e mi pare che la morte mi riuscirebbe pacifica e onesta vicino a lei. Firenze e la sua casa saranno il mio primo porto dopo questa universale burrasca; e a quel porto rivolgo quando mi corico a sera, e quando m’alzo, i miei occhi sospirosi. Eppur l’ho lasciato![41]

La natia Zacinto, la casa materna di Venezia dei grandi sonetti, di cui parole e motivi ritornano in queste lettere ansiose e malinconiche, vengono sostituite da Firenze e dall’ospitale casa alfieriana del Lungarno, dalla casetta di Bellosguardo e dall’immagine tranquilla della donna gentile, cosí necessari alla realizzazione della sua poesia.

E sia nel tempestoso soggiorno milanese del ’14-15, sia nell’esilio in Svizzera e a Londra, continua a lungo nelle lettere alla d’Albany, al Fabre, alla Quirina (che rimarrà sino al ’23 la destinataria delle lettere piú intime, specie dopo la rottura con la d’Albany), quel rimpianto di Firenze – e soprattutto del suo idioma e del suo cielo – e di Bellosguardo come i luoghi propizi alla sua poesia ormai per sempre esaurita. Negli impegni del prosatore d’arte (Le lettere dall’Inghilterra), del politico e polemista, e soprattutto del grande critico, alacremente viveva l’anima del Foscolo, tutt’altro che incadaverita, come egli diceva pensando agli anni della sua piú grande stagione poetica. Ma certo anche quell’attività cosí importante e originale era ai suoi occhi insufficiente compenso all’espressione lirica, che proprio nell’eccezionale periodo fiorentino aveva rivelato il fondo piú arcano e armonioso dell’animo foscoliano, le sue note piú intime e universali.


1 «Laidi ruffiani di letteratura» li chiamava ora, come già nel Commento alla Chioma di Berenice aveva chiamato «anime di cimici» i puri eruditi e i grammatici incapaci di intendere il valore della poesia e l’impegno del poeta nella vita del proprio tempo.

2 Firenze era entrata con i Sepolcri fra i miti alti del lirico, ma in quel mito, che fa da sostegno a tutta l’ardita costruzione del carme e rappresenta uno stimolo vivo e storico a quell’inno alla vita in presenza della morte, si componevano elementi del suo amore per Firenze, che già il Foscolo aveva precisato in maniera meno unitaria nell’Ortis del 1802 sulla base del sonetto Al Lungarno fiorentino e del suo soggiorno fiorentino dell’inverno 1800-1801: il fascino complesso del «sacro paese» come terra della poesia (dove «si ridestarono dalla barbarie le sacre muse e le lettere»), come centro vivo della gloria italiana conservata nelle tombe di Santa Croce («Dianzi io adorava le sepolture di Galileo, di Machiavelli e di Michelangelo ecc.»), come rifugio dell’ultimo grande italiano e maestro del Foscolo, l’Alfieri («l’unico mortale che io avrei desiderato conoscere»), come terra di vitalità profonda e ingentilita («La Toscana è tutta quanta una città continuata e un giardino, il popolo naturalmente gentile, il cielo sereno e l’aria piena di vita e di salute»). Questi elementi dell’amore foscoliano per Firenze (incoraggiato anche dallo stesso amore dell’Alfieri che aveva vagheggiato la luminosa fermezza dell’«attica Flora», lo splendore della primavera del «fausto etrusco suolo» «dove ogni oggetto al poetar mi tragge», sonetto CCXLVII) venivano alimentati dai suoi ricordi sentimentali dell’amore per «la bella giovinetta ch’ora è donna», dell’amicizia per il Niccolini, e dall’illusione cosí foscoliana di ritrovare in Firenze tutto ciò che credeva di aver perduto negli anni della maturità, magari vagheggiando, se non altro, una morte consolata da affetti piú quieti in quel luogo caro al suo ricordo e alla sua poesia (già nel 1807 scriveva al Niccolini: «il mio cuore amerebbe aggiungere che il desiderio di morire in Firenze mi sta piantato nel cuore», Epistolario, Ed. Naz., a cura di P. Carli, III, p. 286).

3 In L. Corio, Rivelazioni storiche intorno ad Ugo Foscolo, Milano 1873, p. 94.

4 Lettera al Bodoni, del 15 agosto 1812 (Ep., IV, p. 92).

5 Lettera alla Teotochi Albrizzi, del 29 luglio 1812 (ibid., p. 67).

6 Lettera al Giovio, del 5 agosto 1812 (ibid., p. 78).

7 Lettera alla Teotochi Albrizzi, già citata.

8 Lettera al Trechi, del 23 ottobre 1813 (Ep., IV, p. 399).

9 Lettera alla d’Albany, da Milano (ibid., p. 317), senza data: nella vecchia edizione delle Opere era datata 12 agosto 1813.

10 Si vedano, ad esempio, le lettere alla Martinetti del 19-20 agosto e del 14 settembre 1812, passim.

11 Ep., IV, pp. 108-109.

12 Per le notizie relative al soggiorno fiorentino del Foscolo si veda il breve scritto di N. Tarchiani, Firenze al tempo del Foscolo, nel volume Ugo Foscolo e Firenze, Firenze 1928 (a cura della Società nazionale per la Storia del Risorgimento, Comitato toscano), a cui ci si riferisce anche per notizie contenute negli altri saggi ivi raccolti. Utile può riuscire, per le notizie sulla vita fiorentina nell’epoca napoleonica, il volume di A. Lensi, Napoleone a Firenze, Firenze 1936, pur nella sua intonazione «romanzata».

13 E non era lo stesso Foscolo a scrivere al Trechi il 1° ottobre del 1812 che da mesi e mesi «Nulla venus, non ulli animum flexere hymenaei»?

14 Soprattutto nel secondo e breve periodo dell’autunno 1813, in cui son piú frequenti gli accenni delle lettere ad una vita galante e ad un episodio di rivalità con un ufficiale francese corteggiatore della Nencini: episodio (lettera del 23 ottobre 1813 al Trechi, già citata) interessante a mostrare quanto di combattivo, di risentito c’era pur in questo periodo nell’animo foscoliano che non si può mai ridurre ad una condizione di rassegnata e bonaria saggezza.

15 Circa il celebre salotto si rinvia al volume di C. Pellegrini, La contessa d’Albany e il salotto del Lungarno, Napoli 1951, che contiene, anche nelle lettere della contessa, interessanti accenni al Foscolo di questo periodo.

16 Ep., V, p. 15.

17 V. Alfieri, Lettere, in Opere, Torino 1903, p. 301.

18 Dà rilievo notevole ai colloqui bolognesi con la Martinetti, subito prima dell’arrivo a Firenze e come stimolo alla decisione di intraprendere l’inno, piú volte vagheggiato, alle Grazie, F. Pagliai nella sua introduzione al testo critico dei Versi dei Silvani, in «Studi di Filologia Italiana», X (1952), pp. 207-209.

19 J.J. Winckelmann, Opere tradotte, Prato 1830, vol. VI, p. 509. Precise riprese di principî neoclassico-winckelmanniani sono evidenti negli abbozzi di dedica delle Grazie e nei frammenti della ragione poetica delle Grazie. Sull’importanza del neoclassicismo winckelmanniano per la poetica neoclassica in Italia e per il romanticismo neoclassico, rimando ai miei saggi: La poetica neoclassica in Italia, in «Belfagor», 31 gennaio 1950; Il neoclassicismo e la poesia del Parini, in «Rassegna Lucchese», 1951, n. 4; G.M. Pagnini traduttore neoclassico, in «La Rassegna della letteratura italiana», 1953, n. 1; Aspetti della poetica neoclassica nell’ultimo Settecento, in «La Rassegna della Letteratura Italiana», 1953, n. 3, 1944, n. 1; Lo sviluppo del neoclassicismo nelle discussioni sul «gusto presente», in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», 1953, n. 2; ora raccolti nel volume Classicismo e neoclassicismo nella letteratura del Settecento cit.

20 Sui rapporti ideali fra Foscolo e Canova si trovano alcuni accenni nel volume di G. Fallani, Canova, Brescia 1949, ma con un eccessivo credito alla grandezza dello scultore neoclassico e con equivalenze piuttosto generiche.

21 Si vedano le lettere alla Martinetti, del settembre 1812 (Ep., IV, p. 135), al Trechi, del 2 settembre 1812 (ibid., p. 127), alla d’Albany, del 31 dicembre 1813 (ibid., p. 467), a G. Serbelloni, del 27 settembre 1813 (ibid., p. 364).

22 3 settembre 1812 (ibid., pp. 129-130).

23 Lettera alla Martinetti del 5 settembre 1812 (ibid., pp. 133-134) e lettera al Trechi del 10 settembre 1812 (ibid., p. 137).

24 Questa rapida ricostruzione del lavoro artistico foscoliano nel 1812-1813 si appoggia alla precisazione di cicli elaborativi delle Grazie offerta dall’introduzione di F. Pagliai al testo citato dei Versi dei Silvani. Naturalmente il discorso critico potrà divenire aderente e preciso quando disporremo di tutto il testo a cui il Pagliai lavora, con la successione cronologica delle stesure dei vari passi e la precisazione, per quanto è possibile, della cronologia del primo apparire dei vari motivi ed episodi, che permettano di seguire l’arricchimento e approfondimento delle Grazie fra il loro periodo iniziale nell’agosto-settembre 1812 e la serie di cicli elaborativi successivi, e fra loro vicini, della primavera-prima estate 1813, con le poche aggiunte dei mesi milanesi e del breve ritorno a Firenze nell’autunno 1813.

25 Cfr. la lettera allo Schulthesius, del 27 agosto 1812 (Ep., IV, p. 114), e quella allo stesso del 13 settembre (Ibid., p. 143).

26 E al grande tema della pietà, della compassione doveva ispirarsi la tragedia Edipo che il Foscolo vagheggiò di realizzare in questo periodo. E nelle lettere in cui si accenna alla Ricciarda, il Foscolo si riferisce soprattutto ai caratteri di pietà, di commozione raccolti intorno al personaggio della «infelicissima» principessa. Per la possibile ripresa nel periodo fiorentino della abbozzata tragedia Agamennone, si veda L. Fassò, Due pagine inedite di U. Foscolo, in «Nuova Antologia», 16 maggio 1931, e poi in Saggi e ricerche di storia letteraria, Milano 1947.

27 Questo fortissimo interesse linguistico e la sua espressione negli studi di quell’anno e nella rielaborazione della versione sterniana sono precisati minutamente nelle pagine della introduzione premessa da M. Fubini alla sua edizione delle Prose varie d’arte (Opere, vol. V, Firenze 1951, pp. XXXVI e ss.); pagine che studiano anche la «storia» della versione e il rapporto fra il testo sterniano e la versione didimea: problema a cui è dedicato anche il saggio di C. Varese, Linguaggio sterniano e linguaggio foscoliano, Firenze 1947 (a proposito del quale in una mia recensione sullo «Spettatore Italiano» del luglio ’48 io indicavo l’utilità di una precisa attenzione al rapporto fra versione sterniana e Grazie).

28 Viaggio sentimentale, nota al frammento arcaico-parodistico (in Prose varie d’arte cit., p. 149).

29 Sul fatto che il Foscolo si occupasse anche dell’Ipercalisse durante il lavoro della Ricciarda e della versione sterniana cfr. L. Fassò, Prose politiche e letterarie (Opere, VIII, pp. XXXIII-XXXIV), e M. Fubini, Prose varie d’arte cit., p. XXXV. Sulla posizione linguistica foscoliana rispetto al «toscanismo» dei non toscani e sul lavoro dello scrittore per utilizzare letterariamente la «gratia nativa» del parlato fiorentino, si veda l’Ipercalisse, pp. 68 e ss. (nell’ed. delle Prose politiche e letterarie sopra citata).

30 Per le relazioni fra le prose didimee (e la componente didimea della vita foscoliana) e certi aspetti della prosa foscoliana precedente, si rinvia al saggio di M. Fubini, Storia esterna di Didimo Chierico, in Ortis e Didimo, Milano 1963 (e alla sua monografia foscoliana del 1928), al Didimo Chierico di M. Marcazzan, Milano 1930, allo Sterne in Italia di G. Rabizzani, Roma 1920, alla Vita interiore di Ugo Foscolo di C. Varese, Bologna 1942, e (per quanto riguarda il carteggio Arese) al saggio di L. Caretti, Sulle lettere del Foscolo all’Arese, in Studi e ricerche di letteratura italiana, Firenze 1951. Sul problema del Foscolo didimeo nella storia della critica cfr. il mio Foscolo e la critica, Firenze 1957, 19675.

31 Si potrà meglio studiare la relazione fra le versioni omeriche e le Grazie quando si avrà anche di quelle il testo critico (ormai in fase di pubblicazione nella edizione nazionale a cura di G. Barbarisi) e una precisazione cronologica di quel lungo e saltuario lavoro [edizione ora attuata]. Si può comunque rilevare in generale (come fu già fatto dai critici, quali il Fubini o il De Robertis) che quell’esercizio di traduzione-creazione costituisce insieme, rispetto alle Grazie, un intimo lavoro di correzione e rasserenamento dell’animo appassionato (il contravveleno omerico) e una concreta preparazione di stile greco-italiano («dipingere» contro «descrivere»), di linguaggio piú lieve e limpido, energico ma non eloquente, visivo e musicale, come rivelano quegli innesti, quelle inserzioni di versi foscoliani nel testo omerico, che (specie sulla direzione del paesaggio) rappresentano (piú che il mezzo per suggerire al lettore moderno la viva impressione di luoghi che parlavano ai greci col semplice loro nome, come spiegava il Foscolo) una sottile possibilità per il Foscolo di mediare nel proprio verso i modi della «melodia pittrice» omerica, di prolungare l’eco della poesia omerica dentro la propria poesia, in un contatto cosí immediato e stimolante.

32 Cfr. in Prose varie d’arte cit., pp. 75, 91.

33 Il lavoro di revisione continuò anche nella primavera, ma in sostanza dové trattarsi di un lavoro di ritocchi in relazione alla bella copia che di quei lavori faceva il Calbo. La primavera, quanto a creazione originale, fu tutta dedicata alle Grazie. Su tale impiego della primavera del ’13 da parte del Foscolo si rinvia ancora al fondamentale studio del Pagliai piú volte citato.

34 Naturalmente le notizie sulla situazione militare delle nuove campagne napoleoniche del 1813 giungevano al Foscolo direttamente a Firenze (e se ne vedano le date, specie nel «Giornale del Dipartimento dell’Arno», nelle note del testo dei Versi dei Silvani del Pagliai), ma da Milano (centro dei suoi crucci e delle sue passioni e dei suoi affetti piú forti) venivano le notizie riguardanti amici e conoscenti, commenti ed echi di preoccupazioni di quella che pur rimaneva la città dei suoi impegni di cittadino.

35 Sul valore mediatamente «politico» delle Grazie, sul loro carattere non estetizzante e d’evasione ha insistito particolarmente L. Russo, La critica e le Grazie, in «Italia che scrive», 1940, poi in Ritratti e disegni storici, I, Bari 1946. (Si veda anche C.F. Goffis, Studi foscoliani, Firenze 1942, pp. 48 e ss., per quel che riguarda il sentimento patriottico e politico nelle Grazie). Sui limiti di storicizzazione della posizione russiana circa le Grazie si cfr. la mia Poetica, critica e storia letteraria cit., p. 38, nota 7, entro un rapido schema della poetica foscoliana contenuto in quel volume (pp. 33-42).

36 Accenti di virile e altissima condanna che ben avvertono come nell’animo armonico ed elegiaco-sereno delle Grazie non manchi la possibilità di moti di superiore energia, anche se priva di ogni enfasi eloquente e di aperta polemica e satira. La «sdegnosa lira» ha anzi raggiunto un tono di severità che è ben coerente all’animo di chi vuole la vita fuori dei termini della «rissa fraterna», ma che è sempre pronto a sdegnarsi e ad insorgere contro ogni offesa ai propri ideali e alla propria dignità di uomo.

37 Un vero e proprio dualismo nelle Grazie fra una concezione piú edonistico-estetistica ed una piú profonda ed intima (le Grazie sentite come ristoro e conforto invece che come rifugio) è stato affermato da R. Ramat nel suo Itinerario ritmico foscoliano (Città di Castello 1946).

38 Il Pagliai conferma la cauta ipotesi di M. Barbi (L’Edizione nazionale del Foscolo e le «Grazie», in La nuova filologia e l’edizione dei classici italiani, Firenze 1938, pp. 169-170) e, a quanto appare dalla introduzione piú volte citata, limita moltissimo il lavoro successivo al 1813 e comunque piú in direzione di ritocchi e di spostamenti di episodi e di versi che non quanto a nuovi episodi e frammenti. Naturalmente nel lavoro di elaborazione delle Grazie va calcolato il testo dei passi riportati nella Dissertazione del ’22 che implica correzioni di grande finezza. [Prossimamente sarà pubblicata l’introduzione all’edizione delle Grazie di M. Scotti nel volume delle Poesie di U. Foscolo, nella Ed. Naz. delle Opere foscoliane].

39 Molto indicativa, per ciò che il Foscolo aveva conquistato nelle condizioni propizie dei mesi di Bellosguardo e per l’effetto turbatore delle vicende contemporanee in un animo cosí diverso da quello di un egoistico esteta, la lettera al Giovio (e le lettere al Giovio son davvero un po’ tutte di grande bellezza e profondità) del 29 ottobre 1813: «... vorrei pur sorridere, ma le cose di Italia sono ormai cosí perplesse, ch’io vado perdendo la gioia secreta, la quale – ed è unico compenso alla mia naturale malinconia – mi insuperbiva contro le minacce della fortuna e del mondo» (Ep., IV, p. 395).

40 Lettera alla d’Albany, del 19 novembre 1813 (Ibid., p. 429).

41 Lettera alla d’Albany, del 30 novembre 1813 (Ibid., p. 436).